Il termine burgus spunta solo nel IV secolo nel manuale militare di Vegezio. Deriverebbe dal greco pýrgos, ovvero torre o fortezza. C’è poi il riferimento al burgs germanico (in gotico baurg e in tedesco antico burg), ma ancora più lontana nel tempo c’è una comune radice indoeuropea, con la parola bhergh associata al termine di protezione. Il suffisso inglese borough, lo scozzese burgh sono usati per i nomi di città che avevano amministrazione autonoma, mentre quello tedesco burg identificava una cittadella. E in Italia? I borghi erano centri di piccole o medie dimensioni con un mercato, che si sviluppavano per motivi commerciali appena all’esterno delle mura di una città o di un castello. Magari finivano per essere inglobati dentro una nuova cinta muraria continuando a mantenere il nome originario. Oggi il borgo è la cartolina di un centro abitato da far circolare sui social. Affiora solo un consumo superficiale: che si vada a un concerto rock, a fare in una passeggiata, oppure “per borghi” vale l’esperienza rapida e fine a se stessa, come se si trattasse di aprire e spegnere un canale tv. Eppure, ciò che è “borgo” nell’immaginario collettivo (un gruppo di case, piccolo o grande) non lo è per il valore culturale che ogni piccola realtà italiana esprime, per lo stile di vita o il prestigio che spesso trovano riscontro in riconoscimenti mondiali, come quello dell’Unesco. In ogni caso – purtroppo – l’atteggiamento è molto lontano dal concetto di paese (ovvero di comunità vissuta dagli abitanti, di paesaggi disegnati dall’uomo) da una narrazione che non si limiti alla superficialità di un selfie. Per tutti questi motivi, per favore, limitiamo il termine (o meglio, la moda) dei borghi!
